1 maggio, AIPD presenta l'Album dei lavoratori con sindrome di Down
Nel 1992 l'associazione ha inserito la prima persona con sindrome di Down in un luogo di lavoro.
Oggi i lavoratori a tempo indeterminato della rete AIPD sono 175
Alcuni di loro sono ritratti nelle figurine dell'album dei "campioni":
per completarlo, AIPD si rivolge a privati e aziende. Perché la storia continui...
Roma, 29 aprile 2021 – "Ce l'ho, ce l'ho, mi manca". Tanti sono i lavoratori con sindrome di Down che, grazie ad AIPD, un lavoro lo hanno. A molti però ancora manca: soprattutto a questi è dedicato l'Album dei lavoratori 1992-2020, che AIPD lancia in occasione del Primo Maggio. Era il 1992, infatti, quando l'associazione inserì la prima persona con sindrome di Down in un luogo di lavoro. Oggi i lavoratori con contratto a tempo indeterminato della rete AIPD sono 175 (tanti altri hanno contratti a tempo determinato o di tirocinio): nove di questi "campioni" sono ritratti nelle figurine dell'album, dove però molti spazi sono ancora vuoti. Per questo AIPD si rivolge a privati e aziende: "Vuoi aiutarci a riempirli?".
Il gioco è semplice, proprio come uno scambio di figurine tra bambini: cliccando sullo spazio vuoto, è possibile selezionare la voce "azienda" o "privato": nel primo caso, "compila il form e ti aiuteremo a trovare la persona giusta, a formarla e ad inserirla nel suo futuro luogo di lavoro". Chiunque, invece può sostenerci nei nostri progetti, anche di inclusione lavorativa! E' semplice: bastano pochi euro al mese per diventare membro della nostra famiglia: vai alla pagina dedicata e scopri come è facile sostenere il futuro di una persona con la sindrome di Down.
Chi sono i nove "campioni"... Le figurine già contenute nell'album sono invece la prova che lavorare è bello e possibile, per le persone con sindrome di Down: sul retro di ciascuna fotografia appare infatti non solo il nome, la sezione AIPD e l'azienda di riferimento, ma anche una breve testimonianza del lavoratore raffigurato. "Mi trovo molto bene con tutti i miei colleghi, il direttore e i manager. Il mio lavoro lo faccio bene, per me è molto importante. Ci vado molto volentieri", assicura Italo Maddalena, addetto sala presso Mc Donald's di Roma. "Io ho realizzato il mio sogno: lavoro!", esulta Andrea Oggiano, addetto mensa presso DSU università di Pisa. "Lavorare in Parafarmacia mi piace tanto perché mi permette di vedere tanta gente e farmi conoscere. Io dico che questo è il mio regno!", assicura Alessandra Cappello, commessa presso la Parafarmacia Partigiani in Puglia.
... e i 175 lavoratori AIPD a tempo indeterminato. A un anno dal trentennale, AIPD si pone quindi l'obiettivo di "completare" l'album, arricchendo da un lato la squadra dei lavoratori con sindrome di Down, dall'altro le aziende che vorranno giovarsi del loro contributo. E per dimostrare che l'impresa è bella è possibile, pubblica l'elenco degli assunti a tempo indeterminato nella rete Aipd, insieme all'indicazione delle principali aziende con cui AIPD ha collaborato.
#IwantWork: l'appello della rete europea Valueable. Non solo Italia: per il 1 maggio, anche la rete europea per l'inclusione lavorativa delle persone con disabilità intellettiva, ValueAble, di cui AIPD è capofila, lancia lo slogan, l'hashtag e l'appello "Io voglio lavorare": un appello che suona particolarmente forte, nel momento in cui il mondo intero da più di un anno si è fermato e tanti lavoratori sono in difficoltà. E proprio per questo la campagna lanciata dalla rete, cui aderiscono sei Paesi europei, assume oggi un significato e un valore particolare: ha il compito di far sentire con forza la voce di queste persone, per le quali il lavoro è anche inclusione sociale e autonomia. Possono partecipare tutte le persone con Sindrome di Down o disabilità intellettiva che lavorano e/o che cercano lavoro. La richiesta è di pubblicare un post sui Social, tra il 30 aprile e il 3 maggio, con il messaggio "Io voglio lavorare",
accompagnato dagli hashtag #InternationalWorkersDay #ValueableNetwork #IwantWork e
con il tag dell'associazione di riferimento, dell'azienda presso cui si è eventualmente inseriti
e di @ValueableNetwork.
L’idea di unire in una serata l’intrattenimento musicale con la presentazione di una ricerca scientifica è sicuramente ardita e ambiziosa. Ma a noi di Aipd piacciono le sfide! Così è nata “La sindrome di Down: questa sconosciuta!”, una serata realizzata grazie alla collaborazione tra Aipd Marca Trevigiana, Corale Barbisano e l’assessore alle politiche sociali Tobia Donadel del Comune di Pieve di Soligo. E il 16 gennaio all’auditorium di Pieve di Soligo eravamo lì di fronte a un centinaio di persone, tra curiosi, amici e professionisti dei servizi socio-assistenziali dell’Ulss 2 a parlare anche della trisomia 21, ma soprattutto a raccontare la vita, le difficoltà, i sogni, le incertezze e aspirazioni delle persone con la sindrome di Down. Ma ora la parola ai relatori di quella splendida serata!
Essere genitori di una persona con sindrome di Down
“Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la sua vita a credersi stupido” (A. Einstein). La sfida per tutti i genitori (ma anche tutti gli attori dell’ambito educativo) è capire quale “animale” abbiamo di fronte. Ogni genitore vorrebbe il meglio per il proprio figlio: capire qual è il meglio non è sempre scontato, ed ancor più difficile per chi nasce “diverso”. "L’importante è che sia sano” è la classica frase per le mamme in attesa, e torno col pensiero a quando mi è stato detto che Michele era nato con la sindrome di Down: ho versato tante lacrime ed ho avuto tanti brutti pensieri, non lo nego. Ancora adesso non so se avessi più paura delle difficoltà sconosciute da affrontare o del dovermi confrontare con gli occhi e soprattutto le lingue del mondo! Ha prevalso la consapevolezza che noi genitori, Alessandro e Michele avevamo il diritto ed il dovere di darci più opportunità possibili, nonostante tutto e tutti. Quando ho telefonato a casa per comunicare la notizia stavano suonando le campane a festa per la nascita di Michele: in quel momento ho provato solo fastidio e disperazione, ma quel suono mi ha accompagnata sempre, e tuttora lo considero un messaggio arrivato non per caso, ma per darmi forza ed energia. Da subito, abbiamo cercato di far fare a Michele il “normale” percorso di vita (scolastico e non), con la consapevolezza dei suoi limiti e delle difficoltà degli altri nel prendersi carico di lui (e per alleggerire questo ogni volta che ho potuto ho cercato di essere presente sia fisicamente che con collaborazione per supportare chi lo doveva fare). Andando indietro con la memoria , quasi non ricordo le tante cose fatte, così tante che mi sembra quasi impossibile esserci riuscita e sempre con la sensazione di non fare mai abbastanza (fisioterapia, logopedia, musicoterapia, psicomotricità…). Però non ho dimenticato gli stati d’animo, sempre gli stessi pur in situazioni diverse. Ci sono state parole e toni che mi hanno fatto male, facendomi sentire inadeguata. Ci sono stati momenti in cui l’inevitabile confronto con i coetanei mi toglieva il fiato! Mi sono scontrata con la limitatezza di alcune offerte dei servizi pubblici e di alcune risposte date. In quasi tutte le situazioni sociali mi sono resa conto che le persone “difettose” devono sempre essere perfette. Quante volte le fatiche, le rinunce, le scelte e le non-scelte per dare a Michele il più possibile strumenti di crescita (con l’accortezza di non togliere possibilità e spazi al fratello) non sono state comprese o semplicemente bypassate da chi ritenevo sensibile all’altro, ed invece era solo sterile apparenza per il mondo. La scuola ed i servizi come istituzioni mi hanno un po’ delusa: le ore di sostegno limitate, l’Ulss presente solo per le scartoffie, senza suggerimenti e supporti rispetto alle strategie scolastiche. La differenza l’hanno fatta le persone (insegnanti e compagni) in tutti i cicli scolastici: posso solo ringraziarli tutti per aver agevolato l’integrazione di Michele in modo esemplare. L’istinto di protezione familiare può limitare la crescita sociale ed il raggiungimento di nuove autonomie. Ho ritenuto importante cercare situazioni staccate dalla famiglia in cui sperimentarsi. In AIPD ho trovato il supporto di operatori professionisti, fondamentale ed efficace nelle strategie e nei risultati. Lo sport è sempre stato parte della vita di Michele, che dall’età di 5 anni frequenta la piscina. A questo si è aggiunto il judo, una delle esperienze che gli ha dato (e gli dà tutt’ora) consapevolezza di sé e senso di appartenenza ad un gruppo invidiabili: mi sento in dovere di ringraziare il suo maestro Stefano ed i ragazzi della ValmarenoJudokaj per il coinvolgimento e la fiducia che sempre gli danno. Nella serata del 16 gennaio ho esposto queste riflessioni (che qui ho sintetizzato), mostrando immagini per me significative della vita di Michele. Ho raccontato le fatiche partendo dal loro risultato, perché le cose belle sono quelle che ci guadagniamo mettendoci in gioco, sempre e comunque; sono i limiti affrontati e superati: quei limiti che ci sono, ma non dobbiamo decidere a priori quali siano. Vedere gli occhi felici di Michele quando si rende conto di riuscire, di essere capace, di stare al passo e/o di sapere che c’è qualcuno che lo aspetta quando non ce la fa, cancella tutto il resto! So che è valsa la pena rischiare, credere, faticare, sacrificare alcune scelte perché vedo Michele felice, indipendentemente dalla mia presenza; utile nel menage familiare; in grado di stare via da casa 2 mesi a lavorare, ma anche a divertirsi ed essere orgoglioso di se stesso, con amici che lo cercano. Allora si annulla il disagio della frase “l’importante è che sia sano” e mi focalizzo su un’altra espressione: “chiedimi se sono felice”! Raccontare la mia vita è stato difficile, non amo esprimere le mie emozioni, ma se farlo può aiutare a vedere con occhi diversi e più consapevoli qualsiasi situazione “di difficoltà”, allora spero di poter avere ancora la possibilità di farlo. Commovente, a serata finita, l’abbraccio di Michele: un abbraccio pieno di lacrime (e Michele piange raramente), di consapevolezza e di amore che non ha bisogno di altre parole.
Emma Villanova
Inibizione: le nuove frontiere della ricerca
Ho colto fin da subito la proposta di questo incontro con grande entusiasmo perché credo che l’informazione e la conoscenza più profonda siano il primo passo verso l’inclusione della persona con sindrome di Down. Penso che il vero punto di forza di questa occasione di confronto sia stato l’arricchimento e la condivisione, non solo dal punto di vista tecnico ma soprattutto dal punto di vista umano e delle esperienze personali che ognuna di noi ha portato con sé. Quando mi è stato chiesto di preparare un discorso per questa serata, ho pensato subito che purtroppo molte volte noi “addetti ai lavori” diamo per scontate troppe cose, lasciando così un vuoto che sarebbe invece corretto colmare. Come faccio a rapportarmi nel modo più “efficace” e sincero con una persona con sindrome di Down se non conosco almeno le caratteristiche di questa sindrome? A prescindere dal motivo per il quale ci stiamo relazionando con una persona con sindrome di Down (per esempio: per lavoro, per condurre una ricerca, in una situazione di svago o semplicemente perché passeremo una giornata insieme al figlio/fratello/ecc. con sindrome di Down di un nostro amico o conoscente), credo sia fondamentale non dimenticare mai una regola di vita che vale per tutti: ogni singolo individuo è diverso dall’altro e che il punto di partenza per stabilire una relazione vera è conoscere e capire quali sono i punti di forza e di debolezza di questa persona. E’ proprio da questo punto che è nata la collaborazione tra Associazione Italiana Persone Down della Marca Trevigiana e Università di Trieste: conoscere quali sono le capacità e le difficoltà di chi ha la sindrome di Down e capire che cosa può essere davvero utile per aumentare le abilità che già possiedono. Come ho spiegato nel corso di questo incontro, il tema principale della mia ricerca è la capacità di inibizione nella persona con sindrome di Down. Con la parola inibizione in psicologia si intende la capacità di riuscire a fermarci prima di agire, di non farci distrarre e di comportarci in modo diverso quando ci rendiamo conto che stiamo sbagliando. L’inibizione possiamo associarla sia a degli aspetti più cognitivi (per esempio, quando sto facendo i compiti per casa o sto lavorando e devo quindi riuscire a concentrarmi e ad isolare nella mia mente tutte le cose utili ed eliminare quelle che non c’entrano nulla), ma anche ad aspetti più emotivi (per esempio, la capacità di saper aspettare per ricevere un premio o per fare una cosa che mi piace molto). Quello che abbiamo visto fino ad ora con il mio gruppo di ricerca, composto dalla Prof.ssa Maria Chiara Passolunghi dell’Università di Trieste e la Prof.ssa Maria Carmen Usai dell’Università di Genova, è che i bambini e i ragazzi con sindrome di Down hanno più difficoltà sia a sapersi fermare prima di mettere in atto un comportamento, sia a gestire e a “tenere fuori” le informazioni che non c’entrano nulla con quello che stanno facendo. Una volta capite le difficoltà quale può essere il prossimo passo? Nel mese di gennaio è iniziato in Associazione un percorso per migliorare queste difficoltà, che in linguaggio tecnico si chiama training, che coinvolgerà ragazzi e adulti con sindrome di Down. Si tratta di un training nuovo e mai fatto prima d’ora. Il nostro obiettivo è cercare di capire come questo training può essere d’aiuto alle persone con sindrome di Down per migliorare sia le loro capacità di inibizione che le abilità legate alle autonomie con le quali questi ragazzi si confrontano ogni giorno. Credo che questo possa essere un primo passo importante, ma noi ricercatori non possiamo lavorare da soli: abbiamo bisogno che anche l’ambiente che circonda questi bambini e ragazzi possa essere uno stimolo per il loro apprendimento.
E’ importante creare attorno alla persona con sindrome di Down una rete che collabori e che vada nella stessa direzione! Infatti, penso che le persone con sindrome di Down, i loro genitori, i compagni o colleghi che incontrano e collaborano a scuola o al lavoro, i professionisti del settore e tutti coloro i quali ruotano attorno alla persona con sindrome di Down dovrebbero essere come le corde che si usano per ormeggiare le navi al porto. Un solo nodo debole potrebbe rimandare al largo la nave, lasciandola in balia delle onde!”
Martina Fontana
L’inclusione sociale e le sfide di oggi
Michele B., Michele C., Rossella, Elena, Matteo sono cinque persone straordinarie. Ognuno di loro fa una vita diversa, ha una storia diversa, e l’unica cosa che li accomuna è avere un cromosoma in più. Mi sono chiesta come potevo raccontarli a una platea, trasmettere la loro storia, i loro sogni e le loro fatiche a chi mi ascoltava. E così è nata l’idea di una video-intervista che ha fatto emergere l’autenticità di questi ragazzi che, come tutti i loro amici di AIPD, sono unici e irripetibili. Penso che per poter realizzare quel processo di inclusione per cui tanto ci battiamo, bisogna fermarsi a conoscere la persona con disabilità o con una qualsiasi diversità; altrimenti rischiamo di cadere nella “trappola” della categorizzazione, rischiamo di etichettare le persone secondo preconcetti standardizzati, che ci impediscono di vedere l’altro per ciò che realmente è. E se non impariamo a conoscere le persone con i loro pregi e difetti, difficilmente riusciremo a cogliere tutte le loro potenzialità. Parlare di inclusione di persone con disabilità, è un argomento piuttosto spinoso, faticoso. Il bambino con disabilità ha diritto a frequentare la scuola di ogni ordine e grado con bambini della stessa età; è importantissimo per lui imparare a stare insieme ai coetanei, sperimentare insieme a loro le dinamiche del gioco, della relazione ecc. A volte capita di sentire qualche genitore preoccupato perchè il compagno di classe con disabilità “fa rimanere indietro col programma il resto della classe perchè fa troppa confusione”. Queste frasi provocano sempre un dispiacere perchè magari quel bambino, invece, sta cercando il modo di relazionarsi, di comunicare con i suoi compagni; e magari in quel momento quel bambino ha solo bisogno di uno strumento, una strategia per comunicare in modo adeguato. Il processo di inclusione è un processo che riguarda tutti, che ci interessa in quanto membri di una società civile. Ognuno di noi può trovarsi a doversi relazionare con persone diverse da noi, che stanno vivendo una difficoltà permanente o provvisoria. Questo processo inizia se ci fermiamo e, prima di ogni giudizio, iniziamo a conoscere, iniziamo a tessere relazioni veritiere e autentiche con chi ha una disabilità. E questo sì che è il punto di partenza per riuscire a creare percorsi di autonomia in cui l’elemento fondamentale è la centralità della persona e la sua autodeterminazione. In AIPD i ragazzi hanno la possibilità di trovare uno spazio in cui crescere non solo nelle abilità e nelle autonomie, ma soprattutto nella consapevolezza di loro stessi e del loro essere (e/o diventare) adulti. E perciò tutti noi partecipiamo al loro processo di inclusione sociale quando incoraggiamo i loro comportamenti adulti, quando entriamo in relazione rispettando i tempi, i confini e le peculiarità di ognuno e quando sosteniamo i loro desideri di vita. E da qui è nata la nuova sfida di autonomia abitativa che, non solo AIPD, ma anche tante altre realtà stanno intraprendendo per dare concretezza al bisogno di vivere una vita da soli, in coppia o con alcuni amici di tanti adulti con disabilità. E il ruolo di tutti noi è quello di fare in modo che ciò sempre di più accada, costruendo una rete di relazioni e di supporti che sostengano il percorso di vita indipendente e adulta che tutte le persone chiedono di vivere.
Michela Menin